| la donna nell'intervallo digitale della pellicola
The Queen
di Stephen Frears
Gran Bretagna, 2006
Produzione Granada
1h39
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La sequenza di apertura, che precede i titoli di testa, immediatamente pone, in modo secco e lucido, tutti gli elementi che andranno a disegnare, nel corso del film, una dimostrazione razionale, complessa, geometrica e austera dello stato attuale del cinema: mentre la regina posa per un pittore ufficiale, un lento travelling verticale in piano ravvicinato scorre sulla sua figua, in un angolo della stanza una televisione prevede la probabile vittoria alle elezioni del partito laburista e gli occhi della regina si rivolgono direttamente alla telecamera.
Così, con queste tre mosse secche, Frears presenta il suo film: acutezza del meta-cinematografico, sacralità e umanità della figura regale, recitazione dell'attore e impossibilità della rapprentazione di una figura centrale per la contemporaneità, coabitazione della monarchia e della democrazia, del cinema e della televisione. The Queen è un film unitario, fortemente univoco nel porre il suo problema, la sua tesi, la sua domanda: come rappresentare al cinema il contemporaneo? La recitazioni degli attori, i diversi supporti delle immagini, la costruzione narrativa e le forti scelte di messa in scena non fanno che ripetere lo stesso problema: dove e come si trova il cinema contemporaneo. Lungo tutta la durata del film alla regina verrà riconosciuto il lusso del 35mm, a Blair lo sgranato del 16mm; Helen Mirren reciterà la parte dela regina, Michael Sheen quella di Blair; e la struttura narratva procederà a schema parallelo, fino a un finale che fa prevedere un incurvarsi delle rette, l'una verso l'altra, quando, tra il 35mm e il 16, tra la Regina e Blair, tra i due attori, si porra Diana: nessuna attrice recita il suo ruolo, nessuna pellicola supporta la sua immagine: reale, digitale, storica, irrapresentabile, Diana regna, nell'intevallo, sulla crisi del cinema.
Il cinema classico costruisce un montaggio parallelo tra il 35mm e il 16mm, tra il castello scozzese di Balmoral e l'appartamento o gli uffici di Blair, tra i kilts, i Babour, le scene di caccia e il rapporto di coppia moderno e quotidiano, le magliette della Juve; tra i pesanti telefoni ufficilali sparsi nel castello (memorabile la sequenza in cui la Regina risponde a Blair dalla cucina, facendo uscire tutti i domestici) e il cordless di Blair. Ma un tale cinema classico apre, allo stesso tempo, lo spazio del'anacronismo, del contro-natura di un'aristocrazia comune, dell'ossimoro: Diana, sempre diversa, contraddittoria, sfuggente, viene immersa da Frears nell'interregno televisivo.
E Frears mostra una televisione capace di presentare le persone che abitano la contemporaneità, mentre il cinema testimonia la possibilità di rappresentarle come figure (secondo un procedimento teatrale, civico, di finzione collettiva): in The Queen il rapporto tra pellicola e il contemporaneo, tra la rappresentazione e la realtà, tra il pubblico e il privato, viene sottilmente strutturato intorno a una figura femminile, un centro intoccabile che apre nuovi orizzonti per le valutazioni estetiche, politiche e sociali del cinema.
"En réponse à la fameuse phrase de (...) [Truffaut] sur l'incompatibilité des termes «cinéma» et «britannique», (...) The Queen offre une explication: les deux mots ne sont ni plus ni moins incompatibles que «princesse» et «peuple», «Blair» et «Elizabeth II»; «cinéma» et «télévision», «Truffaut et Godard»..."
(cahiers du cinéma, n.616, p.34).
maria guidone
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