L'AFFARE CRIMINALE CHIAMATO GUERRA


di Emiliano Laurenzi


«La globalizzazione non è un fenomeno naturale, ma un fenomeno politico concepito per raggiungere obiettivi ben precisi.» - Noam Chomsky

«La guerra è sempre un tipo di lavoro redditizio, è un grande affare e fra questo e quello che dice la Grande Televisione, cioè che non si deve ammazzare la gente, c'è contraddizione.» - Emir Kusturica

«La guerra non mi suggerisce nessuna idea degna di essere comunicata.» - Franz Kafka

Che la guerra sia un affare piuttosto ghiotto, lo si sa da sempre. Ma si fa finta di non saperlo. Politici in deficit di legittimità, partiti che esprimono tendenze autoritarie sotto la patina pubblicitaria che come una melassa percettiva accomuna tutto l'arco parlamentare, cittadini che si crogiolano nella loro ignoranza, nel loro comodo pregiudizio. Sono questi i tristi protagonisti di questa finzione. Mentre il palcoscenico per questa messa in scena della guerra giusta, della guerra portatrice di civiltà, quello è fornito dalla ditta. E la ditta, quando si parla del business della guerra, sono proprio quei poteri, economici e, a ruota, politici, che dalla guerra stessa traggono denaro, mani libere e ben protette, strumenti e pretesti per gestire il loro potere nell'impunità. Quel che fanno è esattamente lottare, combattere, mentire e brigare per far prevalere la loro idea, per preservare ed ampliare il loro potere.

A questo punto, chi con un senso di déjà vu dovesse sospirare e dire "Ma si sa, e cosa possiamo farci?" dovrebbe invece riflettere, trattenersi dall'assumere la posa mentale del suddito, dell'umiliato e offeso, del rassegnato e ragionare. Perchè dire che la guerra è un crimine e che chi la sostiene politicamente, chi la finanzia, chi fa profitti su di essa, chi la giustifica e chi la benedice è a sua volta un criminale, non è solo un'opinione, non è semplicemente un'idea bislacca ed utopistica, bensì la forma più compiuta e più chiara di un discorso strettamente razionale nella forma, e profondamente etico nella sostanza che lo innerva. Troppo spesso, infatti, il fatalismo nichilista ed il disinteresse egoistico e rassegnato delle persone cosiddette comuni, non sono solo il segno della sottomissione di milioni di persone e della loro rinuncia ad avere la dignità di soggetti liberi, bensì la forma più meschina di connivenza. Il semplice mettersi a ragionare, e farlo pubblicamente, è infatti un'arma molto più potente di quanto si creda. Ragionare, informarsi e mantenere pubblico questo patrimonio di coscienza, farlo circolare socialmente, senza ricercare il consenso che serve ai partiti e non a chi è libero, significa di per sé fare una scelta.

La scelta di una società dove non possa essere tollerabile, ma sopratutto non sia possibile, lucrare su di un crimine come la guerra. Schiere di presunti pragmatici, di realisti che mascherano il loro realismo dietro un disimpegno dalla natura meschina, o peggio di politici imbevuti di realpolitik, saranno pronti a ribadire che la guerra è uno spiacevole strumento, una risorsa estrema, ma spesso efficace, per impedire ad altri di fare del male, di compiere atti terroristici, di sopraffarre popolazioni. Ma è un vecchio ragionamento miope ed il più delle volte interessato. La guerra, ovvero la violenza organizzata attraverso la disciplina e la tecnologia, di per sé genera violenza e i problemi che parrebbe risolvere, in realtà li amplifica, diffondendo odio, rancore, distruzione, macerie e devastando la vita e l'ambiente. E la guerra è l'espressione più bestiale delle logiche del capitale, quelle che riducono le persone e l'ambiente a merce da predare, quelle che tendono con la violenza psicologica e materiale a ridurre le differenze, a livellare le forme di vita ad un codice a barre, a piegare al profitto la libera espressione, il territorio, l'esistenza e la cultura di intere popolazioni.

La natura più intima della guerra contemporanea è quella dell'affare. Un affare in cui le idee, le presunte ragioni politiche - ma non ci vanno poi dicendo da anni che la politica è morta e con essa le ideologie...? - i sentimenti di sicurezza e l'ignoranza, vengono sublimate in uno spettacolo. Lo spettacolo della morte, della tecnologia militare, del computo delle vittime e dei "danni collaterali", l'asettico eufemismo con cui si indicano i civili ammazzati per sbaglio. Uno spettacolo con ragioni nascoste. Ragioni che hanno due connotazioni: il controllo sociale ed il profitto, entrambe mascherate da politiche di sicurezza e di difesa dell'ordine democratico. La sicurezza che si pretende di garantirci attarverso la guerra non è altro che il proliferare di provvedimenti atti a restringere e sopprimere - in via provvisoria? - le libertà civili e lo spazio sociale, due dimensioni inconciliabili con le logiche del mercato e con chi intende ridurre le nostre forme di vita ad una serie di comportamenti unicamente volti al consumo. La retorica pseudo-democratica, invece, quella che ci ammanniscono i media e le faune parlamentari, non è altro che una foglia di fico. Una foglia di fico intessuta di menzogne - come quelle sui presunti arsenali di armi di distruzione di massa iraqueni - di prepotenza e di ricatti diplomatici volti a distogliere l'attenzione da temi estremamente più significativi e importanti, come l'inquinamento globale o la devastazione sociale che il neoliberismo sta diffondendo nel pianeta. E soprattutto a mascherare le reali motivazioni che spingono alla guerra. Motivazioni che sono economiche. Di un'economia criminale della peggior specie.

La reale natura di questi sproloqui sulla libertà e la democrazia risiede infatti negli enormi interessi economici legati alle prede di guerra - fondamentalmente risorse energetiche - ed al profitto diretto ed indiretto che si ricava dalla loro predazione. Una guerra, in termini economici, che attualmente sono i più adeguati per parlare delle reali motivazioni militari che spingono a far fare le guerre ai governi, è un affare immenso. Si pensi solo ai costi dei sistemi d'arma, del munizionamento, dell'equipaggiamento, della logistica, della infrastrutture tecnologiche, dell'approvvigionamento di combustibili, del trasporto delle truppe, dei loro acquartieramenti, delle paghe, etc. E ci si limita così agli eserciti regolari. Se poi si pensa che in Iraq la seconda forza militare "occidentale", per consistenza numerica, è costituita da mercenari, i cosiddetti contractors, l'affare diviene ancora più redditizio. I contractors sono i moderni mercenari, e le aziende che gestiscono questi militari privati producono profitti enormi. Sono veri eserciti privati di professionisti della guerra, che obbediscono alle direttive loro impartite da chi li ingaggia. Noi abbiamo solo una vaga idea di cosa sono i bilanci dell'industria di guerra. Attualmente, al livello mondiale, costituiscono uno dei budget più elevati in assoluto spesi dagli dagli stati.

Questa privatizzazione della guerra, d'altra parte, è l'esempio più lampante e bestiale della violenza e della prepotenza insite nelle logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno portato governi di differente orientamento a privatizzare i servizi pubblici, ed in ultima analisi a cedere lo spazio del controllo statale a quello del capitale privato. La possibilità di armare ed impiegare eserciti mercenari, infatti, è l'esempio più palese di quanto gli stati contemporanei siano solo dei gusci vuoti, che hanno abdicato alle loro funzioni principali. Lo spazio del controllo sociale che prima veniva esercitato attraverso il potere statuale, è oggi appannaggio del potere economico e finanziario gestito da soggetti sovranazionali e da organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale. D'altra parte gli stati devono continuare a legittimare la propria esistenza, e lo fanno anche selezionando gli argomenti con cui catalizzare e coagulare il consenso di cittadini resi meri consumatori. Uno degli argomenti retorici preferiti è ad esempio la criminalizzazione dell'immigrazione, ma anche, e soprattutto, la criminalizzazione di qualunque atteggiamento contesti, anche con argomenti civili e razionali, la presunzione di difendere valori - che sono ormai, è bene ricordarlo, solo valori retorici utili al mantenimento di ordinamenti che di democratico hanno sempre meno - come democrazia e libertà, che sono invece, come detto prima, puri paraventi che servono per nascondere e sottrarre all'attenzione pubblica le vere ragioni della guerra.

Anni fa in Italia venne abolito, attraverso un referendum, il servizio mlitare obbligatorio, rendendolo volontario. Questo fatto esemplifica la portata del consenso inconsapevole che il neoliberismo sollecita, attraverso i media ed attraverso l'incultura di cui è portatore. Ed è anche il segno del passaggio di potere dallo stato ad un soggetto più fluido e meno identificabile, il tanto ambiguo mercato. Dal potere di coercizione statale rappresentato dalla leva militare, che rappresentava uno dei cardini dell'autorità statale democratica così come si era sviulppata nella modernità, all'esercito volontario, ovvero alla professionalizzazione della guerra come attività lavorativa. Un soldato, infatti, "fa il suo lavoro" e nessuno osa ribattere che questo lavoro implica l'accettazione della guerra, ovvero di un'attività che prevede e incita la violenza e l'odio. Tutto quello che ci dicono serie televisive, articoli di giornalisti prezzolati, o opinionisti ben comodi e lontani dai teatri di battaglia, e cioè che i militari professionisti garantiscono la professionalità del lavoro da fare, e che combattono contro "il male" o "stati canaglia" con più efficacia, non solo sono menzogne, ma hanno anche l'aggravante di essere menzogne consapevoli, volte a rafforzare e diffondere una precisa visione di come dev'essere regolata la vita di milioni di persone, delle cose in cui devono credere. E questo si chiama propaganda. Propaganda che serve, di nuovo ed ancora, a distogliere l'attenzione dall'affare guerra, e dai profitti che questa dà modo di fare. Questi profitti sono il cuore ideologico, politico, economico, finanziario ed esistenziale di quel che ci vogliono far credere sia la difesa della democrazia e della libertà.
continua...